sabato 30 dicembre 2017

Natale 2017

Sto tornando a casa dopo le vacanze di Natale in Italia, per la terza volta dal mio trasferimento a Tours. Sono diventata più brava ad organizzare il viaggio: cerco i voli per Milano e Genova da Parigi, Nantes e Poitiers, vado in aeroporto in treno, autobus o con i "covoiturage" di Blablacar.
Avendo una scelta più ampia spesso riesco a fare degli incastri notevoli di orari e a risparmiare, ma altre volte mi va un po' meno bene. Come questa: dopo aver prenotato ad un prezzaccio il volo Nantes-Milano di domenica alle 9.30 di mattina - vigilia di Natale, 44 euro invece che 150 da Parigi - non ho trovato nessun mezzo per arrivare all'aeroporto il 24 in tempo per il volo e così ho dovuto partire la sera prima da Tours e dormire a Nantes. Ho pure mangiato male quella sera: dato che i tre ristoranti veggie di Nantes che mi ero segnata erano chiusi, ho scelto un ristorante biologico vegan-friendly che a cena propone soltanto tapas, sotto forma di salsine varie da spalmare sul pane. 25 euro per una specie di merenda all'aglio, perdendo ogni voglia di bruschetta per i prossimi mesi.
Dopo queste peripezie sono arrivata a Milano: un giretto per gli ultimi regali, l'incontro casuale da Lush con Angelica, amica milanese in Portogallo da 6 anni, pizza da Spontini per dimenticare la cena precedente e poi via in treno con mia sorella verso il Trentino, verso casa di nostro fratello.

È il mio quarantaduesimo Natale passato in famiglia, sempre con i miei genitori e Chiara. Per Dario le cose sono cambiate da quando è sposato con una ragazza sarda, a Natale vanno a Porto Torres dalla famiglia di lei che non vedono spesso. Quest'anno tuttavia a causa dei loro turni in ospedale non sono potuti partire, così si è deciso che saremmo stati noi a raggiungerli a Mezzocorona: ebbene, finalmente un Natale con i nipotini!
Tommaso, Mattia e Marta hanno 8, 6 e 4 anni: a decenni di distanza dalla mia infanzia, ho rivissuto con loro i momenti di fibrillazione in attesa dell'arrivo di Babbo Natale, ritrovando l'emozione nei loro occhioni e nei sorrisi con i denti da latte.
Ma la sorpresa è toccata anche a me la sera del 24 quando, dopo cena, nel bel mezzo di un cartone animato, un suono debole di campanellini proveniente da dietro la porta d'ingresso mi ha dato un brivido. Presa alla sprovvista, ho avuto un attimo di smarrimento... Era un piano organizzato da mia cognata con l'aiuto di mio papà; io sapevo solo che sarebbe successo qualcosa per l'arrivo dei regali, dato che tutti gli anni Dario e Claudia organizzano qualcosa di semi-realistico per mantenere viva la leggenda nei loro bimbi. Essendo arrivata solo da un paio d'ore non conoscevo di preciso il programma di quest'anno, ed è stato meglio così perché per quei due secondi ci sono cascata!!! A quel punto non mi è costato molto mantenere l'espressione sbalordita spontanea del primo istante, che se avessi voluto farla apposta non avrebbe potuto essere più autentica.
I miei nipotini quest'anno tenevano più del solito a vedere Babbo Natale con i loro occhi, in seguito alle inquietanti rivelazioni della cuginetta della Sardegna che da tempo ha capito tutto (le femmine sono più sgamate). Infatti Zenia, 8 anni, che come i suoi cugini trentini ha potuto vedere più volte Babbo Natale nella sua vita grazie all'impegno degli uomini della sua famiglia - anche mio fratello in passato si è mascherato - l'ultima volta si è accorta della montatura ("perché Babbo Natale ha le scarpe e l'orologio del papà???") ed ora sta facendo vacillare le certezze dei miei nipoti. Soprattutto quelle di Tommaso, che sostiene fermamente l'esistenza di Babbo Natale, ma essendo un bambino con una gran voglia di capire si trova in difficoltà. Ho vissuto un momento difficile quando mi ha chiesto "zia, tu l'hai mai visto?", tra il non volergli mentire ma nemmeno rovinare la bellezza dei sogni che i suoi genitori gli stanno preservando - o fabbricando - ancora con tanta cura. Gli ho detto semplicemente di no e per fortuna gli è bastato. In realtà mi sa che sull'argomento non stia cercando veramente tutte le risposte: lo capisco, non è facile rinunciare alle favole.

Questa volta non è andata come i miei nipotini speravano. In effetti Tommaso è troppo grande per non riconoscere suo padre o il nonno dietro un costume rosso e una barba bianca; e poi ora i bimbi sono tutti in allerta, alla ricerca di prove per smentire Zenia. Così quando i campanellini hanno taciuto e abbiamo aperto la porta, Babbo Natale era già andato via lasciando tre sacchi pieni di regali sul pianerottolo.
Ci sarebbe voluto un Babbo Natale esterno: se servirà ancora ce lo affitteremo l'anno prossimo.

Sono stata con loro quattro giorni, passando tanto tempo insieme ai bambini e soprattutto giocando. Non li vedevo da maggio. Da due anni, ogni volta che ci vediamo spunta l'argomento "Francia": Tommaso e Mattia sono incuriositi dal fatto che la zia Serena viva in un altro Paese che non sanno dove sia ma che inizia piano piano a prendere forma nelle loro menti. Conoscono la tour Eiffel, che chiamano "torre di Parigi": me lo sono segnato mentalmente, così se un giorno vorranno venire a trovarmi avrò un'alternativa già pronta a Disneyland!
Loro che alle elementari stanno imparando tedesco, già da un po' mi chiedono di insegnargli delle parole di francese; ci vediamo così poco che da una volta all'altra non se le ricordano, ma qualcosa mi dice che forse stavolta sarà diverso. Un pomeriggio abbiamo giocato a Scarabeo, perfetto per Mattia che ha appena imparato a scrivere. Ad un certo punto Tommaso, che aveva già tentato inutilmente di far passare per validi nomi assurdi di personaggi dei suoi librini, ha composto "NOEL", ed io bella fiera: "bravo Tommaso, questa parola va bene!"
Père Noël però non gliel'ho insegnato.

venerdì 14 luglio 2017

Il francese, i francesi

Rosemarie, una mia amica tedesca in pensione che ha insegnato per anni nelle scuole della Touraine, dice che i francesi sono come dei bambini: sono ribelli, pieni di sé, fanno di testa loro, studiano a memoria senza capire, sono suscettibili... ad esempio.
Li ha osservati bambini a scuola, senza ottenere molte soddisfazioni nell'insegnar loro tedesco, e in effetti uno dei luoghi comuni diffuso anche tra i francesi è che non sanno le lingue straniere. Un francese è diventato suo marito, ma non è andata benissimo perché dopo un po' si è ritrovata da sola. Da questo ed altri esempi io direi che si sposano spesso per romanticismo e consuetudine senza gran convinzione, ma non vado oltre in questo discorso.
Li ha avuti quindi come colleghi nei mille mestieri che ha fatto per tirare su da sola i due figli, tra cui operaia e guida turistica.
Rosemarie è un po' severa nei suoi modi di fare e nei giudizi, e posso dirlo perché sta insegnando tedesco anche a me. È proprio tedesca, diremmo con un luogo comune. Ma è anche accogliente e molto ironica, io la aiuto a perfezionare l'italiano facendo conversazione e ci troviamo spesso a ridere insieme, quando le sue battute taglienti non riguardano me! dato che anch'io sono suscettibile.
In tedesco invece siamo ancora molto lontane dal fare delle battute, per ora posso solo dire dove vivo, cosa faccio e scrivere la lista della spesa (mit Tomaten, Käse und Rot Wein).

Che strano studiare tedesco in Francia, vero? non so ancora il francese perfettamente, anzi ho appena scoperto che pronuncio male proprio la erre che mi costa tanta fatica, ma ho colto l'occasione che si è presentata per caso quando ho aderito al SEL de Loire (dove SEL = Système d'Échange Local), una specie di banca del tempo.
Si tratta di un sistema di scambio di servizi il cui valore si misura unicamente tramite il tempo impiegato, in minuti. L'unità immaginaria di scambio che corrisponde ai minuti sono i grani di sale, "sel", da cui l'acronimo che dà il nome all'associazione.
Io do ragione a Rosemarie, vedo tratti comportamentali infantili e giocosi nella popolazione, come la passione per mascherarsi - non solo a Carnevale! (passione contagiosa... qui mi vedete con la mia amica Maria Grazia al ballo rinascimentale nella bellissima Salle des Fêtes del Comune).
Forse italiani e tedeschi stanno diventando troppo seri?!?

E con la loro lingua i francesi giocano come con la plastilina. L'Académie Française ci prova a bacchettarli e ad imporre delle regole di scrittura, l'ortografia è importantissima a scuola ma molto difficile da imparare e resta un problema diffuso che non si risolve quasi mai con la fine del percorso di studi. Molti escono da scuola senza saper scrivere correttamente, e forse non è tutta colpa loro: a questo proposito ho una teoria.
Il francese è pieno, pienissimo, di omofoni, parole con lo stesso suono e significato diverso. Per una larga parte di francesi adulti (ne sono esempio anche molti miei colleghi) che direi essere più della metà, la differenza tra l'infinito e il participio passato di un verbo regolare del primo gruppo è vaga, dato che anche se si scrivono diversamente si pronunciano allo stesso modo: parler (infinito), parlé (participio).
Ormai mi sono abituata all'errore ortografico/sintattico di inversione delle due parole, anche al lavoro e anche da persone con un certo livello di formazione. Nella maggior parte dei casi è l'infinito a prendere il posto del participio: "j'ai parler beaucoup". Sarei curiosa di sapere quali meccanismi (il)logici e sintattici nel ragionamento di chi parla giustificano questi errori, dato che con i verbi irregolari, dove infinito e participio hanno un suono diverso, non si fanno errori. Chi sbaglia insomma parla ad orecchio, non legge moltissimo o lo fa senza attenzione, ma purtroppo anche sulla carta stampata si possono trovare questi errori.
All'inizio mi scandalizzavo ma ora tollero tutto, anche cose peggiori come "c'est tout" (è tutto) che diventa "sait tout" (sa tutto), sempre per un caso di omofonia che potrebbe essere anche peggio perché con la stessa pronuncia esistono anche ces (questi), ses (suoi), sais (so). L'italiano, che quasi sempre come si legge si scrive, è molto più facile da gestire.
Il mio amico Frédéric racconta spesso che il francese è diventato difficile a scrivere quando secoli fa un gruppo di aristocratici ha deciso di imporre delle regole di scrittura per confinare la lingua all'interno di un'élite, escludendo il popolo dalla comprensione della lingua scritta e quindi dal potere. Non ne so di più, e non so come si scrivesse prima, ma sarebbe interessante approfondire. È comunque evidente che c'erano buoni motivi per fare la rivoluzione.
Nonostante una lingua così problematica, e nonostante il loro amore per le regole, i francesi sembrano reagire con molta nonchalance ai suoi tranelli, amano anzi i giochi di parole che ne conseguono e la mantengono viva con parole nuove, storpiate, accorciate.
Perché il naso (nez) si chiama anche pif? e il vino (vin) pinard? e l'acqua (eau) flotte? e il denaro (argent) sous, fric, oseille, tune? Lionel da dietro le quinte mi suggerisce anche flouze, liquide, maille. Queste parole non sono dialettali, ma fanno parte del francese parlato correntemente, con sfumature più o meno familiari.
Senza parlare del verlan, un argot in cui le parole si spezzano e se ne invertono le sillabe: père, padre, diventa "reup"; femme, donna, diventa "meuf"; lourd, pesante, diventa "relou".
Capite perché dopo quasi due anni a pranzo con i colleghi non capisco niente?!?
Ma non è finita. I francesi usano abbreviazioni dappertutto, nel registro familiare come nel linguaggio tecnico e burocratico. Oltre al vélo, la bicicletta (vélocyped comunque non lo direbbe più nessuno) ecco una mini lista di nomi e aggettivi stesa al volo:
psy = psychologue (psicologo)
comm = communication (nel senso di messaggio)
pédé = pédéraste (omosessuale, volgare)
proprio = propriétaire (proprietario della casa in cui si vive in affitto)
perso = personnel (personale)
dispo = disponible (disponibile)
écolo = écologiste (ecologista)
intello = intellectuel (come categoria sociale)
ordi = ordinateur (computer)
matos = matériel (materiale che serve per un certo scopo)
resto = réstaurant
sono = sonorisation (impianto sonoro)
asso = association (associazione)
résa = réservation (ordine, prenotazione)
accro = accroché (molto appassionato, quasi dipendente)
prépa = préparation o préparatoire (vale in senso chimico e in senso scolastico: l'Ecole Prépa è quella che prepara per l'accesso alle tanto ammirate Grandes Ecole per diventare Ingénieurs e Fonctionnaires e fare brillanti carriere che qui spesso sono garantite dopo la conquista del pezzo di carta).

E gli acronimi? talmente diffusi e radicati che spesso il significato originale non si sa più, si usano molto anche nel lavoro e a Marsiglia in erasmus ne avevo già visti un bel po':
BD = bandes dessinées, fumetti
TP = travaux pratiques, esercitazioni a scuola
FH = acido fluoridrico!!! perché non lo chiamate HF che così la formula chimica è giusta?
VA = vitesse d'attaque, velocità di attacco cioè etch rate; spesso usato in modo improprio (perché i miei colleghi non pensano al significato originale) per indicare un test di qualifica di una macchina con misura di spessore
BU = bibliothèque universitaire
RU = restaurant universitaire
CDD, CDI = contrat a durée déterminée/indéterminée, sono i contratti di lavoro
PV = procès verbal, multa, (grazie ancora Lionel perché non sapevo cosa vuol dire), che si dice anche amende ma che si pronuncia come amande, mandorla.

Certo è raro trovare un vigile che dà una mandorla, ma poveracci, che casino capirsi.

mercoledì 14 giugno 2017

Momenti di trascurabile felicità

Sto attraversando la piazza delle Halles di Tours, vicino a casa.
14 giugno, ore 21.30 (i francesi scrivono sistematicamente 21h30), 26 gradi, il cielo è ancora chiaro e le rondini girano che è una meraviglia.
Sono uscita di casa un'ora fa per incontrare Antonio e Maria Grazia al Tourangeau, il bar centrale del mio quartiere. Ho consegnato a Maria Grazia il sacchetto di 3 kg di verdure bio (panier) dei Jardins du Contrats, dato che da oggi è diventata lei la mia socia di panier, al posto di Frédéric. Con Antonio ci siamo scambiati un po' di informazioni sulla dichiarazione dei redditi: dobbiamo pagare le tasse per la prima volta in Francia e siamo in ritardo. Siamo d'accordo per andare ancora una volta al Centre des Impôts, che qui è il solito palazzone statale di uffici tipo alveare ma senza coda.
Piccole commissioni in chiusura di giornata. Ho pure buttato il vetro che si accumulava in cucina da qualche mese, sentendomi di avere un po' migliorato la situazione in casa.
Al bar una bella pinta di panaché (birra e limonata) mi ha sollevato i pensieri e la stanchezza, quattro chiacchiere con i miei amici e la piccola Bianca, la figlia bilingue di 8 anni della mia amica, che dice cose ingenue con l'accento francese e i dentini in fuori, mi hanno fatto ritrovare la voglia di perdere tempo insieme, dopo tanta efficienza. Il Festival aveva quasi azzerato il mio tempo libero negli ultimi mesi.
E ora, salutati i miei amici, facendo i 400 metri che separano casa dal Tourangeau, con gli stridii delle rondini - hirondelles - nelle orecchie, all'improvviso penso che sto proprio bene.
Sto dormendo poco e ancora non è arrivato il momento di fermarmi perché in questi giorni sto preparando la musica per la serata di tango di sabato prossimo - ebbene sì, ancora una volta DJ Serena! Eppure sto proprio bene.
Oggi ho promesso che andavo a dormire alle 21h30 per recuperare il sonno perduto, e invece come sempre ritardo, ma stasera voglio scrivere due righe qui e condividere con qualcuno, con voi, con te, questo momento di trascurabile felicità che anche tu hai sicuramente già vissuto in una forma simile a rondini, cielo azzurro tiepido e panaché.

Sto proprio bene qui e ora, è un'intuizione, non prevedo nulla per domani e per il prossimo minuto.

"I momenti di trascurabile felicità funzionano così: possono annidarsi ovunque, pronti a pioverti in testa e farti aprire gli occhi su qualcosa che fino a un attimo prima non avevi considerato"
da "Momenti di trascurabile felicità" di Francesco Piccolo.
Grazie Annalisa per questo regalo!



venerdì 14 aprile 2017

Tours'nTango




Ciao amiche e amici tangueri!

Forse non lo sapete ancora, ma dal 2 al 5 giugno ci sarà un festival di tango a Tours - proprio qui! - in cui sono coinvolta direttamente perché da quest'anno sono attiva nell'associazione.
E' un festival che si annuncia piccolino ma già abbastanza noto perché esiste da 10 anni: siamo alla quinta edizione dato si fa ogni due anni, si prevedono circa 400-500 persone. L'ambiente è molto conviviale, abbiamo deciso addirittura di usare la label "Open Role Friendly" per dare la possibilità agli invitanti ed invitati di sperimentare le gioie del ruolo opposto... diciamo che è una formula "liberi tutti" che soprattutto per noi ballerine è molto interessante! Ambiente internazionale perché il passaparola si è attivato, le case dei miei amici sono già piene di invitati per il festival, francesi e stranieri.
Tra parentesi mi sto occupando proprio io dell'organizzazione dell'ospitalità per chi cerca una sistemazione gratuita in casa dei ballerini di Tours. Sto mettendo insieme le disponibilità proprio in questo periodo. E... i miei amici italiani??? beh, siete i benvenuti e in casa mia avete la precedenza! qui si puo' stare comodi in 5 e un po' meno comodi in 7. Altrimenti c'è tutto il resto della banca dati che sto costruendo e alcuni alberghetti carini in centro città.
Allora: chi di voi verrebbe???

Il programma del festival è ricchissimo di eventi, con aperitivi e concerti in città. Per due sere avremo anche due sale indipendenti per ballare classico e alternativo. Tutto considerato, aggiungo che è un festival veramente low cost per i partecipanti: le milonghe e gli stage sono a pagamento come al solito, ma tutto il resto è gratuito e aperto a tutti, anche e soprattutto ai non ballerini, per far conoscere anche al resto della città questa bella passione che ci coinvolge. Per l'associazione il festival sarà un po' meno low cost, io spero solo che chiuderemo i conti in pari se no l'anno prossimo dovremo scervellarci ancora di più per far quadrare il bilancio.
Ma a questo penseremo dopo il 5 giugno, quel che è certo è che sarà molto divertente e io sinceramente NON VEDO L'ORA...
Vi dico già che è davvero da provare la milonga al piano attico della biblioteca comunale, con vista sulla Loira e sui tetti della città. Vi aspetto!











domenica 19 marzo 2017

Lo zio politically scorrect

Quando immaginavo la mia vita in Francia non avevo considerato la questione dei rientri imprevisti, e quando si parla di urgenza si parla di solito di brutte notizie.
Ancora un viaggio Tours-Italia-Tours imprevisto, ancora un funerale.
Dopo la zia Iana e Marzia, adesso lo zio Marcello.

Aver voluto spostare il baricentro della mia vita significa essermi voluta allontanare da un mondo conosciuto, un po’ pesante, che faceva da sfondo ormai un po’ troppo ripetitivo ad una me stessa sempre più stanca del tran tran su cui si erano affacciati i 40 anni. Un tran tran che visto dal mio pianeta emotivo non mostrava delle grosse prospettive di evoluzione. Mi sembrava di fare la stessa vita, compiendo gli stessi errori, vivendo le stesse difficoltà, da molto tempo.

Le persone fanno parte di questo sfondo, o no? Ma per forza, sì. E quando si va via si lascia anche quello che non si voleva lasciare, che alla fine del bilancio complessivo è rimasto dalla parte da cui ci si allontana.
Con la distanza, la relazione con le persone è la cosa che è cambiata di più. Ne ho conosciute nuove, e mentre vecchie conoscenze sono sempre più sbiadite alcune amicizie stanno brillantemente sopravvivendo alla lontananza. Lo zio sì, era da un po' che non ci sentivamo, ma con la certezza che rivedendoci si sarebbe subito ritrovato il nostro legame con una battuta.
Forse ci eravamo visti quest'estate l'ultima volta. In questi ultimi 40 anni, poteva essere passato anche più tempo ma se chiamava al telefono di casa dei miei ed ero io a rispondere, lo riconoscevo subito. Mai una volta che avesse detto "Sono lo zio", lui preferiva iniziare già scherzando. E allora si poteva spaziare dai pubblici uffici ("Pronto, qui è il Servizio Oggetti Smarriti di Genova Principe") ai pubblici esercizi ("È il bar della piazza? Mi fa due caffè? Uno macchiato caldo e uno doppio in tazza grande"), passando per personaggi sconosciuti ("Pronto, il ragionier Rossi?")

Io l’ho conosciuto molto di meno di sua moglie, suo figlio, mia madre, i suoi amici, di chi gli ha vissuto vicino giorno per giorno. Ho certamente una visione parziale: non abbiamo fatto vacanze insieme, ci siamo frequentati come uno zio e una nipote in pranzi di famiglia, feste comandate e week end. Mi sento però ugualmente piena del suo ricordo e della sua eredità, quella che ho ricevuto io.
Fare ridere era una priorità, prendere in giro e trovare soprannomi prima che venisse inventato il politically correct. Perché oggi a nessuno verrebbe in mente di salutare i suoi nipotini dicendo "Ciao handicappati!", cosa che ci faceva ridere tantissimo... erano i primi anni '80, scusate!
Adoravamo lo zio con i baffi, che chiamava "Süss l’ebreo" lo zio di campagna con tendenza all’avarizia. Süss non avrebbe voluto che raccogliessimo la frutta matura dagli alberi del suo giardino, ma un pomeriggio lo zio ce lo ha fatto fare di nascosto!
Per continuare con i soprannomi, Io zio Marcello aveva ribattezzato "Arkan" il nipotino pestifero di 3 anni, e io stessa ero diventata "Skeletor" in un periodo di magrezza eccessiva che per altro faceva preoccupare mia madre - senza ragione per fortuna, perché non ho mai perso l’appetito e per questo lo zio si permetteva di sdrammatizzare.
Si è divertito a chiamare la moglie di mio fratello col nome della loro cagnetta e viceversa, e qui gli anni '80 erano finiti da un pezzo. Ma ci faceva così ridere, compresa Claudia-Gina.
Ogni volta che era invitato dai miei mi raccontava il menù preparato da mia madre, sua sorella gemella Marcella (mamma non prendertela! ) che molto diversamente da lui non ama molto il cibo né cucinare. E cominciava a comporre un menù inventato (mezzo mestolo di brodo di dado con la pastina... una foglia di lattuga scondita.... dolce no perché a cena bisogna stare leggeri") che rendeva benissimo lo stile di certe cene a casa nostra, quando mia madre non ha voglia di applicarsi.

Un uomo di spirito, insomma. E di più.
Di lui mi rimane questa eredità, lo spirito di un uomo che amava la vita e le persone, restandone un osservatore attento e curioso. Da ragazzino scapestrato e lavativo a scuola, con la zia Milly ha allevato il figlio unico meno viziato che conosca. Sui campi da calcio ha allenato ed educato decine di ragazzi dosando barzellette e disciplina. Poi, recentemente si era messo a leggere Seneca e studiava psicologia. Facendoci ridere lui ci trattava da pari a pari, da adulti; ci mostrava che ci voleva bene regalandoci tutte quelle storielle, quei giochi di parole, e pure le smorfie... sapete, lui sapeva pure muovere un orecchio in su e in giù: anche per questo, per me è sempre stato uno zio eccezionale.

Al suo funerale c’era tanta gente e tanto sole. A Varazze era primavera, mio cugino Alessandro in maniche di camicia e occhiali scuri salutava i parenti sul piazzale della chiesa. Tanta commozione.
Il sacerdote straniero che ha celebrato il funerale non conosceva lo zio, leggeva il suo nome su un foglietto ma è normale se il prete amico che avrebbe potuto fare una cerimonia più personale si trovava lontano in viaggio... i rientri imprevisti non sono mica sempre possibili.
Quel foglietto doveva essere il certificato dell'anagrafe, così ho scoperto durante la celebrazione che lo zio aveva un secondo nome. Mia mamma ce lo ha confermato: era per ricordare lo zio Peppino che ha combattuto con i fascisti e con Franco (con, non contro) nella guerra civile spagnola e che poi è morto per le ferite qualche anno dopo essere tornato a casa, poco prima che nascessero loro... ma io, mai saputo.
Fino a metà cerimonia quindi lo zio è stato chiamato Marcello Giuseppe; dopo un po’ però il sacerdote forse si è sentito più a suo agio e in maniera quasi famigliare ha cominciato a chiamarlo Giuseppe... Giuseppe... nostro fratello Giuseppe... che se qualcuno fosse arrivato tardi al funerale, se ne sarebbe andato pensando di avere sbagliato chiesa!!!
Allo zio sarebbe piaciuta questa storiella, e anzi magari ci ha messo proprio lui lo zampino. Sono sicura che l’ha già raccontata a S. Pietro.

venerdì 27 gennaio 2017

Intorno ai pains au chocolat - Spirito tourangeau

Grazie ai pains au chocolat ho imparato un elemento chiave per integrarmi con i francesi, questo popolo perfettino, esigente e pieno di autostima.
Arrivando qui, inizialmente avevo sentito dire da molti che i tourangeaux parlano il miglior francese di Francia, che sono aristocratici inside - vivere in un posto dove una villa di campagna si chiama château produce questo effetto - e che è difficile farseli amici. Loro si autodefiniscono freddi.
Col tempo ho imparato che sono attaccati alle loro abitudini come un pidocchio al suo capello, che le regole sono più importanti delle persone e più durevoli delle ragioni alla loro origine. Ma sto parlando dei tourangeaux, dei francesi, o dei miei 15 colleghi del gruppo "Pains au chocolat"? La solita domanda a cui non so rispondere.

Tutta questa storia comincia un venerdì mattina di agosto 2015, il primo venerdì di lavoro nell'ST di Tours. Mentre prendo posto alla scrivania vedo un sacchetto di carta posato lì vicino, con dentro dei pains au chocolat. Chiedo ai colleghi presenti di cosa si tratti e loro mi spiegano che esiste un gruppo che il venerdì mattina si compra i pains au chocolat pagandoli a turno, per mangiarli insieme e condividere un momento di convivialità al bar dell'ufficio. Mi piace molto l'idea, mi piacciono molto i pains au chocolat, non esito un attimo ad aggiungermi alla lista. Nel gruppo ci sono praticamente tutti i manutentori e i tecnici (shift eng), e poi gli eng (tipo me); la maggior parte lavora in équipe in settimana, cioè a turni alternando una settimana il mattino (6.00-14.00) e una il pomeriggio (14.00-22.00). Quindi i gruppi di pains au chocolat in realtà sono due, fatti dell'équipe A e dall'équipe B. Ecco che già le cose si complicano... devo iscrivermi anche alla seconda lista se voglio fare colazione in compagnia tutti i venerdì alla Cafétéria, che noi chiameremmo "le macchinette".

Passa il tempo e l'acqua della Loira sotto il ponte Wilson (il famoso ponte di pietra che si vede in tutte le foto di Tours vista dalla Loira), io partecipo con piacere all'iniziativa e pago quando mi tocca pagare. In una delle liste si aggiunge un gioco: chi offre i pains au chocolat sceglie il dress code che tutti i partecipanti sono invitati ad adottare il venerdì. È un'idea molto carina e divertente: abbiamo visto dal taglialegna al marinaio, dal total white al tricolore italiano - indovinate chi l'ha scelto, he he he...
Passa altro tempo e altra acqua della Loira sotto i suoi ponti. Nonostante il venerdì cerchi di arrivare al lavoro prima, e vada direttamente alla Cafétéria invece di passare dall'ufficio, capita spesso che alle 9 non ci sia più nessuno al bar e che il mio pain au chocolat mi aspetti già sulla scrivania. È buono lo stesso, Bertrand che è l'addetto all'acquisto si rifornisce in una boulangerie che li fa enormi e burrosi come si deve; ma peccato, addio convivialità.
Delle volte ce n'è pure più di uno, perché se qualcuno è assente e al bar non se lo sono diviso qualcosa avanza, e io ovviamente gradisco sempre l'extra. Nonostante la scarsa convivialità, mangiarsi due pains au chocolat guardando Workstream resta una goduria.

Il fattaccio che mi ha sconvolto e spinto a condividere queste riflessioni è successo quest'autunno, ad oltre un anno dal mio arrivo. Ormai non faccio più nemmeno lo sforzo di arrivare presto, se sono stanca arrivo dopo e amen; con gli orari che faccio alla sera in ufficio nessuno pretenderá che entri sempre prima delle 9 come da regolamento, ogni tanto sforo. Servirà a qualcosa essere "cadre"???? che poi qui tutti gli ingénieurs sono cadres, che  in concreto significa non dover timbrare. Poche altre sfumature contrattuali che non conosco neppure, ma differenza tra timbrare o no è essenziale per me e il mio rapporto col badge e l'orologio.

Se il problema del mio orario di arrivo talvolta flessibile finora non si è posto per i miei capi, così non è stato con i gruppi dei pains au chocolat. Un giorno arriva una mail che dice "cercate di arrivare presto perché noi che iniziamo alle 6 facciamo la pausa alle 8.15, ed è carino fare colazione insieme partecipando a questo momento di convivialità, uno dei pochi che ci possiamo permettere al lavoro."
Giusto, giustissimo. Ma se ho sonno alla mattina e sono lenta e mi godo le coccole delle gattine e sono indecisa sui vestiti da mettermi e tutto ciò fa sì che arrivi tra le 8.45 e le 9 nonostante la sveglia alle 6.45 (!) e che tutti i giovedì sera mi riprometta "domani mi alzo prima"... che ci volete fare? peggio per me, mi mangerò il mio pain au chocolat da sola sbloccando i lotti.
E invece... e invece è successo l'Inimmaginabile.
Un venerdì mattina arrivo in ufficio e... pas de pains au chocolat. Alla Cafétéria ero già passata, nessuno, neppure in ufficio: inizio a telefonare.
Alla domanda "Dov'è il mio pain au chocolat?" ottengo solo risposte elusive e scaricabarile, come se non ci fossero testimoni del momento della sparizione. Qui sono maestri di omertà, ve lo dico io.
Passa il tempo e dei pains au chocolat neppure l'ombra, neppure il sacchetto vuoto, non era mai successo prima. Quando riesco ad incastrare Frankie in uscita dalla cleam room, un manutentore di cui non conosco ancora il vero nome e cognome ma a cui sono simpatica, brandelli di verità emergono, e capisco che il mio pain au chocolat è stato spartito tra chi era al bar. Nonostante fosse un giorno con degli assenti e ne avanzassero altri. Nonostante io non fossi assente. Nonostante non esista la procedura scritta che dica "Chi non arriva entro le otto e mezza al bar perde il diritto di disporre del suo pain au chocolat".
SE LO SONO MANGIATO.
E io non avevo neppure fatto colazione.
Frankie, senza mai dire "Ce lo siamo mangiato", con una meravigliosa politesse francese (buone maniere che a prima vista agli italiani sembrano indice di falsità e doppiezza) ha argomentato il fatto che bisogna arrivare presto, che la pausa è alle 8.15, che tutti rispettano l'ora, che è bello stare insieme. In coda aggiunge anche una fantastica semi-giustificazione infantilistica e accusatoria tipica del retropensiero francese: se uno non viene mai in tempo allora significa che non gliene importa niente di condividere quel momento in compagnia - e voi allora voi mi punite mangiandovi il mio pain au chocolat???
Incavolata nera, indignata come solo una golosa frustrata e affamata può sentirsi, ho cercato di chiarire a Frankie il mio punto di vista con il massimo della cortesia disponibile in quel frangente. Piacere di stare insieme o trappola formale? Convivialità o gara a chi arriva prima? Il fatto che io paghi quando è il mio turno sembra che non sia una garanzia sufficiente ad assicurarmi il mio pain au chocolat a prescindere dall'orario di arrivo. A cosa serve essere in una lista se poi i tuoi compagni di lista non si ricordano che esisti?

Ero furibonda. Ma ho tirato fuori tutto il savoir faire possibile a stomaco vuoto, per essere costruttiva e cercare una soluzione che mettesse tutti d'accordo. Se è così bello stare insieme, si potrebbe spostare un po' l'orario della pausa in modo tale da venire incontro ai bisogni di tutti, no?
Arriva una persona nuova nel gruppo e il gruppo si adatta alle esigenze di tutti, se c'è bisogno: dai, fate pausa dalle 8.30 alle 9 e io arrivo in tempo, mi sembra uno stupendo compromesso, no?
No.
Frankie è irremovibile: dispiaciuto perché una signorina che rimane senza colazione e te ne chiede spiegazione sulla porta della clean room è una fatto spiacevole, ma c'est comme ça. Non è lui a fare le regole, ma le enuncia con la sicurezza di chi le conosce da anni, di chi si è nutrito da sempre di una certa forma mentis. Ne ho conferma quando mando una mail al gruppo per scusarmi del mio ritardo e per chiedere di spostare l'ora di 15 minuti, senza far cenno al fatto che il mio pain au chocolat sia stato sbafato da qualcun altro. La risposta è la stessa, diplomaticamente dice qualcosa che significa "arriva prima e lo troverai".

Con loro non sono arrivata così lontano nella mia ricerca della verità, ma mi sono chiesta: se invece che una single lenta fossi una mamma affannata che al mattino deve portare a scuola 4 figli, me lo avrebbero tenuto da parte?
Non è detto. Qui vince la regola, se non stai nella regola non stai nella lista, punto. E il pain au chocolat te lo puoi comprare in piazza alle 8.50.

Quel giorno il pain au chocolat me lo sono comprato alle 13.30, uscita in pausa pranzo ancora scornata e delusa. Per compensare mi sono pure presa un croissant.
La boulangère mi chiede da dove vengo (basta il mio "Bonjour" per capire che non sono francese) e come al solito finisce che parliamo dell'incontro-scontro culturale con i francesi. Lei mi sorprende dicendomi "Ah, ai tourangeaux... non provare a cambiare le loro abitudini! sono conservatori e rigidi, anche se sotto sotto hanno il cuore tenero. Prima adàttati alle loro regole e poi forse le cambierete insieme".
Questa rivelazione mi ha risollevato il morale, forse più dell'apporto di zuccheri e grassi delle brioche. E mi ha fatto pensare.

Ieri era di nuovo venerdì, sono arrivata alle 8.35 alla Cafèt (abbreviazione immancabile). Tutto il gruppo era già al tavolino con il sacchetto al centro, in cui un pain au chocolat mi aspettava.
Da qualche parola captata qua e là nei vari discorsi che ancora faccio fatica a seguire, ho capito che era stato pure lui a rischio sbafo... ma che importa, avevo già le dita unte di burro e il sapore di cioccolato a diffondere endorfine dappertutto, e mi stavo godendo la pausa di convivialità con i colleghi ammirando il dress code del giorno: "camicia, né bianca né nera".
Vincitore assoluto Bertrand, con camicia verde a bollini multicolore.
Sono matti questi francesi.